Nulla di speciale

Questo saggio parla dell’impossibilità di comprare un tavolo e del perché dovremmo tutti smettere di voler essere “designer”.

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I.

“Un tavolo, che somiglia a quello che chiunque potrebbe disegnare – quattro gambe, una a ogni angolo, dritto e squadrato e nulla di inaspettato”. Didascalia numero 26 al tavolo “Less” (Jean Nouvel, Unifor, 1994) all’interno della mostra “Super Normal” curata nel 2006 da Jasper Morrison e Naoto Fukasawa. 1

Lasciando per ora da parte i giapponesi, si analizzi quella frase già densa di significato. Innanzitutto sembra sottintendersi che per meritare l’esposizione in una galleria d’arte, un tavolo debba al minimo essere “inaspettato”. Tuttavia questo oggetto, che non ha nulla di imprevisto, potrebbe essere stato disegnato da chiunque: deduciamo allora che colui che si occupa per professione di disegnare tavoli abbia il compito di infondere la sorpresa.

Invece il tavolo che non è stravagante, non è curvo, non è un piano di corteccia incastonato in supporti di vetro 2 è apparentemente cosa volgare, e nessun “designer” vorrebbe averci a che fare. 

Ci si aspetta che il design produca cose “nuove” o “belle” o “speciali”. Quando ci guardiamo intorno con questa mentalità, le cose che stanno al di fuori del “design” sono viste come “normali” o “brutte” in contrasto. 3

Un oggetto definito “di design”, almeno nel lessico italiano, è sinonimo di forma inconsueta. S’immagina che qualunque cosa che non sia stata perversamente elaborata da un designer non possa performare nelle vendite, perché non avrebbe nulla di “accattivante”, nulla che la renda unica rispetto alla concorrenza. E se l’opinione comune stabilisce che anche un bambino potrebbe disegnare un tavolo rettangolare con quattro gambe ai lati, nessuna azienda vorrebbe mai attirarsi tale derisione.

Ma un bambino non ragiona per “semplicità”, ciò che fa è sfidare l’amico a chi disegna il gadget più accessoriato, esattamente come i sedicenti designer. Così il Salone del Mobile si riempie di frin-frin 4 e le case dei consumatori che vorrebbero “solo un tavolo” si riempiono di sculture postmoderne. Se avete mai provato a cercare un oggetto che non sia “di design”, scoprirete quanto l’egoismo narcisista di certi designer sia ormai pervasivo di ogni ambito della progettazione. 

Pattumiere “di design” dal sapore scandinavo perché la spazzatura oggi si mette sui piedistalli. 5

E intanto il design, una professione un tempo quasi sconosciuta, è diventata un’importante fonte di inquinamento. Incoraggiata dalle scintillanti riviste di “lifestyle”, dagli uffici marketing, è diventata una gara al creare cose il più evidenti possibile tramite colori, forme e sorpresa. 6

Nel momento in cui l’eccitazione di ottenere una “sorpresa” viene mercificata, l’ordinarietà è a rischio. Il design è volgarmente interpretato come intrattenimento temporaneo, che però perde ogni valore appena lo spettacolo finisce, quando l’emozione iniziale svanisce. E dove tutti vogliono essere unici, si finisce per essere tutti uguali.

nuovo tavolo di design
II.

Si sarebbe tentati dallo sminuire questi discorsi come l’ennesimo rigurgito nostalgico, ma la critica non è generica, non si parla qua di un vago “il design oggi”. Il decorso di questa massificata ricerca dell’unicità ha precise radici nella storia recente e i suoi effetti sul panorama contemporaneo non sono casuali.

Un’impeccabile analisi di Libby Marrs 7 ripercorre l’ultimo decennio. Abbiamo tutti sentito l’ansioso desiderio di inventare idee completamente originali, di distinguerci dagli altri, di farlo tramite un’occupazione che sia redditizia ma che non sembri il tipo di “lavoro” in cui si vende l’anima. 8

Non sono qua interessanti gli effetti sociali di questa spasmodica ricerca dell’indipendenza professionale, già ben esplorati in un recente libro di Silvio Lorusso, 9 piuttosto quel conseguente fenomeno di larga scala, amplificato dalla prima diffusione dei social network, chiamato “Hipsterismo”.

L’Hipster è interamente caratterizzato e concentrato intorno al feticcio per l’autenticità. Echeggiando i Romantici, gli Hipster hanno inseguito un ideale di realtà concreta che insiste sull’esistere al di fuori del mercato globalizzato e del consumismo del mainstream, della massa. Ovvero il suo valore deriva dalla scarsità. 10

Pur dovendo rispettare il costante richiamo all’estetica di un passato in cui il consumismo non aveva ancora intaccato il valore degli oggetti “fatti a mano”, viene richiesto un continuo afflusso di nuove idee e forme. In questa progressivamente più complessa ricerca di autenticità, la crescente esposizione sui social network ha facilitato non solo la rapida assuefazione verso la novità costante, ma anche un diffuso stato di polizia da parte di designer pronti a gridare al plagio contro ogni forma non “inaspettata”.

Nel soddisfare la crescente domanda del mainstream verso prodotti non massificati, o meglio l’illusione di essi (pena la pubblica derisione su Twitter), l’Hipsterismo diventa un linguaggio visivo a tutti gli effetti: scalabile e infinitamente replicabile. La risultante “autenticità di massa”, come definita da Libby Marrs, è il punto di rottura: il momento in cui la nicchia Hipster scopre di essere globale. Il sentimento è però lungi dall’essere sparito.

design hipster grafica
III.

Il design ha reso le cose speciali, e chi vuole una cosa normale quando si può avere qualcosa di speciale? 11 Peccato aver scoperto che il luogo idilliaco di cose speciali costruito al di fuori del consumo di massa è in realtà il consumo di massa stesso. 

Incapace di vedere che il sogno dell’autenticità è infranto, il designer “post-autentico” è indaffarato nel cercare nuove forme con cui distinguersi. Tuttavia, svestendoci del pregiudizio modernista, non c’è alcuna differenza fra l’attuale produzione di stravaganza neo-svizzera, i delfini vaporwave su fondo rosa/verde-acqua e le texture di finte pennellate Hipster.

Se non vanno di moda i baffi vanno di moda i sans-serif di abcdinamo, l’atteggiamento è identico: fra qualche anno vedremo entrambe le cose con lo stesso disgusto, sognando chissà quale altro trend.

Perché se l’automobile della nostra vita è grigio scura, vorremmo ridipingerla di rosa o lavanda. Trasformazione, invece, significa che l’automobile può scomparire del tutto. Forse, al posto di un’auto, avremo una tartaruga. 12

Allora si rifiutino le “automobili”, i rigurgiti filo-modernisti e la ricerca dell’originalità. Le cose speciali sono in fondo inutili, la corsa all’ultimo ritrovato che prende like su Instagram una mera perdita di tempo. Inutile fuggire dall’appiattimento del gusto: si accetti la banalità della scelta più scontata. In fondo, la grande verità è che della versione di Helvetica che è stata scelta per il mockup di borsetta di tela a nessuno interessa.

product design innovativo esclusivo
IV.

Nella globalizzazione di gusti ed eventi, la cosa più “alternativa” che si può scegliere di fare è proprio rifiutare la necessità di diversificarsi. Nulla di nuovo, è una conclusione contenuta nel quarto paper pubblicato da K-HOLE nell’ottobre 2013, 13 proprio alla fine della parabola Hipster.

Questa ricerca, che apre con la frase “una volta si poteva essere speciali” è stata ripetutamente citata innanzitutto come origine della parola “normcore”, neologismo che fonde “normal” e “hardcore”.

Se per Naoto Fukasawa il “super normale” si riferisce a qualcosa che già esiste, qualcosa di così ordinario o normale che chiunque guardandolo può dire “è davvero normale!” – K-HOLE costruisce un’intera sottocultura, che si allontana dal marcare il gusto tramite la differenza, abbracciando la post-autenticità cercando la condivisione e la ripetizione. Non è più solo un oggetto, che le persone trovano “normale” pur guardandolo e aspettandosi di esserne sorprese: è una più ampia ricerca di libertà del soggetto stesso.

“I dettagli che ci distinguono sono così piccoli che nessuno è in grado di capire l’effettiva differenza.” 14 Se già è difficile per un designer indovinare l’esatta versione di Helvetica fra centinaia di sans-serif, come può il pubblico generale dare valore alle differenze di qualità fra i graziati quasi artigianali e quel Times New Roman che tutti i computer hanno? Ne parla anche Andrew Sloat in un breve paragrafo, 15 ma la questione è anche recentemente tornata argomento di discussione vista la grande quantità di Grotesk che continuamente vengono prodotti per soddisfare un mercato del tutto effimero. 16

Infatti, “siamo così particolarmente speciali che nessuno ormai capisce di cosa parliamo”. 17 La professione del designer, soprattutto in ambito digitale, è stata così tanto rivestita di strati di falsa complessità (finalizzati, in fondo comprensibilmente, a difendere alti budget) che ci si sente in obbligo di etichettarsi come “UX specialist” o “brand strategist” per non sentirsi tagliati fuori. Buona fortuna a spiegare a un cliente che “UI/UX designer” ormai è passato di moda e ci stiamo tutti chiamando “product designer”. 18

Si potrebbe in questo caso pensare che sia sufficiente rincorrere la punta dell’attuale tendenza per assicurarsi di essere se non nel punto più profittevole della parabola almeno in quello più ricercato su Instagram. Purtroppo, “i segni distintivi dell’individualità cambiano così velocemente che diventa impossibile rimanere aggiornati”. 19 Ciò che è speciale, o “originale”, cambia tanto più velocemente quanto vasta è la sua sovraesposizione nel mondo connesso. 

Una volta consultato lo specialista di “design thinking”, dopo aver scelto con accuratezza un font appena realizzato da uno studente dell’Écal che nessuno ha ancora provato a usare, seguiti alla lettera tutti gli ultimi dogmi in fatto di mockup, ecco che il lavoro di sei mesi, finalmente reso pubblico, è già vecchio di sei mesi.

Quindi basta: si producano finalmente tavoli che chiunque potrebbe disegnare: quattro gambe, una a ogni angolo, dritti e squadrati e nulla di inaspettato. Se sono uguali a tutti gli altri è irrilevante: l’appiattimento del gusto rimarrebbe immutato, ci sarebbero solo più oggetti utili in vendita.

Si usino Arial e Times New Roman, peso unico, bianco e nero in colonne della stessa sconvolgente banalità che si può produrre con Microsoft Word 97 senza toccare alcuna impostazione. Pagine in formato A4, stampa digitale, foto a bassa risoluzione, se poi i margini vengono bianchi va bene lo stesso. Link blu sottolineati, due righe di CSS e nessun framework. A morte il design. La non-grafica è la profonda liberazione da tutto ciò che solo l’immagine pubblica di un “designer” ritiene essere importante.

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V.

A riprova della diffusione geografica e temporale di questo sentimento, non sono solo Naoto Fukasawa e Jasper Morrison a parlare di “super-normale” o K-HOLE di “normcore”. Rob Giampietro nel 2003 20 usa il termine “Default Systems” per descrivere coloro che vogliono allontanare il designer dalla partecipazione attiva servendosi del fatto che “così il computer funziona con il minimo intervento”. Chiara Cesaretti, Sara Guazzarini e Irene Sgarro, in una ricerca realizzata nel 2016 21 che approfondisce proprio quel discorso fra Rudy VanderLans e Giampietro, parlano di “design di tipo automatico” che – attraverso soluzioni mirate a “fai il tuo lavoro, non pensare troppo, non ti affannare dietro ai principi, non provare nulla che vada oltre l’ordinario” – offre “un sollievo dal ritmo incessante che il design segue oggi” e che trova interesse in tutte le possibilità di cui ci si poteva servire ma che di fatto non sono state sfruttate. Il tema è ancora ripreso nel 2020 dalla loro docente Silvia Sfligiotti in una critica al moderno contemporaneo dal titolo “This is auto-tune typography”. 22

Tuttavia, anche se molte soluzioni sembrerebbero coincidere con un’estetica di stampo modernista – tornata dal 2016/2017 alla ribalta per merito di tanti bravi giovani svizzeri – all’uso di griglie, coerenza tipografica, sobrietà e grigi o colori primari manca tutto l’apparato ideologico del “non voler fare grafica”.

Perché è innanzitutto “una reazione violenta contro quel tipo di design che crea cose che non si mescolano con le persone, l’ambiente, le circostanze o gli stili di vita”. 23 Alla degenerazione del design in uno strumento di marketing per promuovere l’identità della corporazione (o di chi vorrebbe esserlo) e vendere riviste 24 la risposta è rinunciare alla propria posizione, tanto quanto il web brutalista fatto di semplici pagine HTML è stato una reazione all’abuso di framework e di inutili animazioni in parallasse.

“In altre parole, il Default Systems Design può considerarsi l’esigenza di una nuova forma di design che si allontani dall’espressione personale come forma di originalità”. 25

Norma si è occupata dell’applicazione e del raffinamento di quest’idea, che se a parole può sembrare tanto codificata da risultare facilmente sperimentabile, nei fatti si scontra con molta diffidenza e alcuni dilemmi formali.

Se già i progetti di Experimental Jetset, a loro modo famosi (e oggetto di quei commenti di Giampietro e VanderLans 26), vengono tacciati di essere “senza anima”, si immagini quanto possa essere ugualmente contraria la reazione di chi si aspetta una forma di intrattenimento. Il gruppo di designer olandesi risponde che è “come non apprezzare uno specchio per ciò che si vede dentro: non è il design a essere senza anima e non è lo specchio ad avere una giornata storta”. 27

A oggi non si crede però sia necessaria alcuna giustificazione a difesa del “nulla di speciale”. Poiché il discorso relativo al design contemporaneo verte solo su questioni estetiche e ogni decisione è in merito al gusto, per chi l’ideologia non è in grado di coglierla qua si difende allora l’estetica del rinunciare alla grafica come se fosse qualsiasi altra estetica.

E considerata l’impopolarità di tali opinioni si esclude implicitamente la possibilità che la “non-grafica” possa mai avere una diffusione tale da diventare così ripetitiva da rendere impossibile l’identificazione delle singole realtà. Sottolineando nuovamente che in ogni caso quell’identificazione è impossibile perché siamo fondamentalmente tutti uguali, questa rimane una “normalità” che non può “fare chiunque”, perché quel chiunque sarà sempre impegnato a fare ciò che oggi inquina il panorama.

normcore graphic design k-hole
VI.

K-HOLE è però lungimirante nello scrivere che “per essere veramente Normcore, è necessario capire che il normale non esiste” . 28 Quel “rimuovere i designer dal sistema” come reazione contraria a chi si chiedeva come i designer potessero diventare autori contiene un paradosso come minimo autodistruttivo.

Di fronte al fatto che l’oggetto di massa più prodotto al mondo sembri essere lo studente di grafica, 29 la normalità che qua si propone è paragonabile a un licenziamento dell’intera categoria professionale. Guardando soprattutto alla progettazione per il web, la normalità non è il prodotto di quel trend “brutalista” 30 di poco tempo fa: la normalità è WordPress. Quasi il 40% di Internet è un sito con un tema WordPress, e contando anche i siti che si basano su questa piattaforma solo come CMS, si sfiora il 64%. 31 Idem per la grafica: si può dire che il vero volto della normalità non sia quello che si trova sponsorizzato sui blog di settore ma quello che si trova nei volantini per corsi di danza, nelle sagre di paese e sui cartoni delle pizzerie.

La fuga nell’individualismo e la ricerca ossessiva dell’esclusività sono modi di agire che appartengono a un passato in cui le persone nascevano in comunità, in cui l’individualità non era così specifica da sfociare nella solitudine. Oggi nasciamo individui, ed è nostro compito cercare comunità invece di cercare attenzione. 32

Non si esclude allora in fondo che – una volta liberatisi di ogni preconcetto su cosa un designer debba fare per essere all’altezza di presentarsi come designer, di ogni espressione personale e tendenza contemporanea – ci possa essere un’ulteriore lezione di de-responsabilizzazione (da leggersi più come wabi-sabi che non alla Robert Venturi) da imparare nel vernacolare, là dove nulla è speciale.

grafica normcore normale brutalista
Note
  1. 1

    “Super Normal”. A cura di Jasper Morrison e Naoto Fukasawa, Axis Gallery, Giappone, 2006. (jaspermorrison.com, naotofukasawa.com)

    ↩︎
  2. 2

    Daniele Lago: “Tavolo Air”. LAGO Design, 2006. (lago.it)

    ↩︎
  3. 3

    Naoto Fukasawa, Jasper Morrison, “Super Normal”, Lars Müller Publishers 2007, p.99.

    ↩︎
  4. 4

    “frin-frin”: termine utilizzato da Enzo Mari per definire tutto ciò che è inconcludente e non meritevole di attenzione. Michele Mari su un articolo di Cristina Moro: “Michele Mari racconta il padre e designer Enzo Mari”. Domus, aprile 2017. (domusweb.it)

    ↩︎
  5. 5

    Bo Touch Bin: una soluzione elegante per la raccolta differenziata. Brabantia. (brabantia.com)

    ↩︎
  6. 6

    Jasper Morrison, vedi nota 3.

    ↩︎
  7. 7

    Libby Marrs: “Post-Authentic Sincerity”. 2020 (libbymarrs.net)

    ↩︎
  8. 8

    Ibid.

    ↩︎
  9. 9

    Silvio Lorusso: “Entreprecariat”. Krisis Publishing, 2018. (silviolorusso.com)

    ↩︎
  10. 10

    Libby Marrs. Ibid.

    ↩︎
  11. 11

    Ibid.

    ↩︎
  12. 12

    Charlotte Joko Beck: “Niente di speciale”. Ubaldini Editore 1994, p. 147.

    ↩︎
  13. 13

    K-HOLE: “Youth Mode. A report on freedom”. Ottobre 2013. (khole.net)

    ↩︎
  14. 14

    Ibid.

    ↩︎
  15. 15

    Andrew Sloat: “Standard, Arial, Helvetica or Whatever”. Parte di “7 Genders, 7 Typographies: Hacking the Binary”, di Riley Hooker. Walker, maggio 2016. (walkerart.com)

    ↩︎
  16. 16

    @typographica: “Customers will find the samey grots elsewhere, often for free”. Twitter, dicembre 2020. (twitter.com)

    ↩︎
  17. 17

    K-HOLE. Ibid.

    ↩︎
  18. 18

    Elizabeth Alli: “What UI/UX and Product Design is All About (and How to Learn It)”. Designerup, marzo 2020. (designerup.com)

    ↩︎
  19. 19

    K-HOLE. Ibid.

    ↩︎
  20. 20

    Rudy VanderLans, Rob Giampietro: “Default Systems in Graphic Design”. Emigre, 2003. (linedandunlined.com)

    ↩︎
  21. 21

    Chiara Cesaretti, Sara Guazzarini, Irene Sgarro: “Retooling Modernism”. 2016. (irenesgarro.com)

    ↩︎
  22. 22

    Silvia Sfligiotti: “This is auto-tune typography”. Medium, agosto 2020. (medium.com)

    ↩︎
  23. 23

    Naoto Fukasawa. Vedi nota 3.

    ↩︎
  24. 24

    Jasper Morrison. Vedi nota 3.

    ↩︎
  25. 25

    Chiara Cesaretti, Sara Guazzarini, Irene Sgarro. Ibid.

    ↩︎
  26. 26

    Rudy VanderLans, Rob Giampietro. Ibid.

    ↩︎
  27. 27

    Experimental Jetset: “Statement and Counter-Statement”, Roma 2015, p.417.

    ↩︎
  28. 28

    K-HOLE. Ibid.

    ↩︎
  29. 29

    Enzo Mari.

    ↩︎
  30. 30

    Brutalist Websites. (brutalistwebsites.com)

    ↩︎
  31. 31

    Nick Galov: “35+ WordPress Statistics for the Budding Webmaster”. Hosting Tribunal. (hostingtribunal.com)

    ↩︎
  32. 32

    K-HOLE. Ibid.

    ↩︎