I siti devono essere accessibili
Siti vetrina che sono vetrine di nulla e web design all’origine del web.
Norma,
Esiste un set di linee guida redatto dal consorzio che si occupa degli standard che accomunano il Word Wide Web 1 (il W3C), chiamato WCAG 2 (“Web Content Accessibility Guidelines” o linee guida per l’accessibilità del contenuto web). A parte essere un documento mediamente ignorato dalla maggioranza di designer e programmatori prestati alla progettazione (da includersi un mea culpa per molti lavori attualmente firmati Norma), la sua introduzione lo descrive come in grado di “spiegare come rendere il web più accessibile alle persone con disabilità”.
Paragonandolo all’architettura si potrebbe immaginare che questo documento suggerisca l’uso di rampe oblique per facilitare gli spostamenti a persone in carrozzina laddove una scala è stata progettata. Quel “disabilità” è sì usato correttamente, ma sembra suggerire che il web sia già accessibile per tutte quelle persone senza disagi fisici o mentali. Sempre metaforicamente però gran parte di Internet oggi non solo manca di percorsi adatti a situazioni di handicap, ma mostra con orgoglio la creazione di gradini insormontabili, porte senza maniglie e tombini aperti.
Nella vastità di Internet è impossibile quantificare la portata dell’inaccessibilità, ma tre ricerche forniscono dati per niente sorprendenti. La prima è uno studio di Lazar, Beere, Greenidge e Nagappa del 2003 3 che, dall’analisi di 50 siti governativi, no-profit e commerciali degli Stati del Medio Atlantico, scopre che solo uno rispetta gli standard WCAG. Segue un nuovo controllo nel 2006 4 sugli stessi siti, che conclude che, pur con vari cambiamenti e alcune migliorie soprattutto per quanto riguarda i testi alternativi delle immagini, “in media, nei 50 siti è aumentato il numero di problematiche di accessibilità durante l’ultimo periodo. I siti web sono davvero diventati più inaccessibili”. Infine una ricerca più recente (Leitner, Strauss e Stummer, 2016 5 ) ha analizzato 89 pagine web private austriache, di cui solo 11 (il 12%) hanno passato interamente i test di accessibilità, confermando anche a distanza di anni e posizione geografica lo scarso interesse per la questione.
L’esperienza di Internet è frustrante per tutti, con o senza disabilità:
- Homepage che da smartphone sono interamente coperte, per metà da popup che promettono 10% di sconto e per l’altra metà da riquadri che obbligano ad accettare i cookie pubblicitari pena l’impossibilità di visualizzare la pagina.
- Video pubblicitari che non si possono saltare, banner pubblicitari che inseriscono codice arbitrario nel sito ospite, livelli trasparenti che catturano i click per dirigerli verso pagine pubblicitarie.
- Header che rimangono fissi durante lo scorrimento occupando 80-100 pixel di spazio verticale dello schermo.
- Caroselli di immagini e testi che scorrendo ogni tre secondi soddisfano l’incapacità di dare una gerarchia ai contenuti di una pagina.
- Script di tracciamento che analizzano il comportamento su più siti per confermarne l’identità.
- Blog che suddividono i contenuti di “gallerie” su più pagine in modo da aumentare le visualizzazioni dei banner.
- Audio che parte automaticamente senza preavviso al primo click.
- Pulsanti d’iscrizione a newsletter attivi per impostazione predefinita, a cui seguono email in cui il collegamento per disiscriversi è accuratamente nascosto.
- Sistemi anti-spam che impegnano gli utenti per minuti nella ricerca di semafori, strisce pedonali e camini invisibili.
- Continui solleciti a condividere i contenuti visualizzati su un qualunque social network.
- Finestre che intimano di scaricare app per poter avere un’esperienza migliore di siti evidentemente non progettati per smartphone.
A caratterizzare il web di oggi non è più la volontà di offrire informazioni e contenuti, ma lo scarso rispetto nei confronti degli utenti e del loro tempo.
Bullshit la chiama Brad Frost in un minisito appropriatamente intitolato Death to bullshit, 6 che si basa su una presentazione esposta a una Creative Morning a Pittsburgh nel 2013. Perfino pagine che vorrebbero parlare di questo argomento 7 sono collezioni di animazioni, webfont e grandi immagini: viene da chiedersi se i leggendari non oltre otto secondi di attenzione 8 si applichino non solo al visitatore ma anche a chi scrive certi contenuti su Internet.
L’utente è purtroppo alla completa mercé di qualunque sadica decisione il designer di turno abbia preso nei confronti della sua esperienza di visita. Se per aprire una pagina di informazioni sono costretto a scaricare 80MB di filmati, 9 e si parla di “minuti” di saturazione della connessione per la maggioranza della popolazione che non è ancora o non sarà mai raggiunta dalla fibra ottica, la responsabilità non è tanto del programmatore che non ha fatto abbastanza per costruire un sito “veloce”: la responsabilità è di chi ha progettato una pagina così.
La responsabilità viene invece addossata sull’utente finale, la cui unica alternativa allo spendere per device più veloci e connessioni migliori è soffrire tempi di caricamento biblici. Un atteggiamento non dissimile da chi vende la raccolta differenziata come soluzione all’inquinante onnipresenza della plastica, causata invece da quei produttori che la plastica non smettono di usarla. 10
Chi cercava informazioni su Internet trova ora contenitori di narcisismo di committenti, designer e sviluppatori il cui ego si esprime in immagini a piena pagina da 4MB l’una, inutili animazioni per rendere la navigazione meno “noiosa” e complessi framework usati per costruire una o due pagine al massimo. Una questione irrilevante per chi queste pagine le ha pensate su uno schermo 27” con una connessione da 100Mbps in download – tanto quanto un pulsante troppo in alto per essere raggiunto da seduto è invece indifferente a una persona in grado di stare in piedi.
In fondo non c’è nessun motivo per chi progetta o programma siti web di fare “nulla di speciale” finché il massimo dell’orgoglio è essere premiati da Awwwards o SiteInspire, vetrine che usano ripubblicare i siti più stravaganti, tecnologicamente super-complicati, in cui tutto si muove (a scatti) e nulla si riesce veramente a capire. E benché questa sia solo la punta dell’iceberg della stravaganza, oggetti più unici che rari, funge da modello aspirazionale per un pubblico molto più vasto muovendo l’asticella dell’inaccessibilità dall’accontentarsi di immagini enormi e lente da scaricare all’accettare che un intero sito si possa costruire su WebGL 11 pur di avere le animazioni qualche frame al secondo più fluide.
Rispetto ai primi 20 anni di web, nell’ultimo decennio il panorama dei browser è molto cambiato: la maggioranza ora si basa su un unico motore di rendering – WebKit/Blink 12 – e gli aggiornamenti, ora automatici e silenziosi, sono molto più frequenti (Chrome pubblica nuove versioni quasi mensilmente). Di conseguenza, è molto più rapida l’adozione da parte della maggioranza del pubblico di nuove tecnologie che prendono forma di nuove possibilità di layout.
La grande varietà di browser e macchine più o meno potenti disponibili spingeva inizialmente ad assicurarsi che ogni visitatore ricevesse la stessa esperienza a prescindere dal tipo ed età del browser in uso (benché troppe volte si risolvesse con un banner che incoraggiava a cambiare browser). L’odierna corsa ai nuovi materiali ha invece lo stesso sapore dell’innovazione nelle possibilità costruttive in architettura: in entrambi i casi, infatti, utilizzare gli ultimi ritrovati tecnologici non è automaticamente sinonimo di buon lavoro.
Se consideriamo una casa come un luogo innanzitutto dove abitare, il fatto che siano stati usati gel di policarbonato alveolare o altri materiali esotici è puramente secondario. L’inquilino non si chiede cosa c’è nei muri: si chiede se sarà a suo agio. Il visitatore di un sito ha aperto il sito perché mediamente è in cerca di una sola specifica informazione, e un designer ha invece scelto per lui che prima di trovarla dovrà confrontarsi con popup, video che partono da soli, animazioni e transizioni sensazionaliste realizzate con gli ultimi ritrovati a disposizione dei programmatori. Barriere architettoniche (però usando fibre sintetiche intelligenti).
È questo il vero significato dei “siti vetrina”? Mostrare tutto il meglio del negozio per attirare i passanti, possibilmente con scenografie tanto finte quanto mirabolanti, manichini sproporzionati e grandi promesse testuali. Se poi quell’informazione cercata, in fondo, neanche si trova, perché Google sta perdendo l’eterna lotta dei motori di ricerca contro i siti costruiti apposta per posizionarsi bene con contenuti inesistenti o copiati male, 13 allora avremo tutte belle vetrine narcisiste costruite sul nulla.
Siamo oltre la domanda di Oliver Reichenstein, “Cos’è successo ai blog?”. 14 Ci si chiede ormai che fine abbiano fatto i siti utili. Si confronti il sito di Ken Rockwell, 15 prendendo la dettagliatissima pagina 16 in cui descrive come fotografare su pellicola analogica – con grande professionalità, esempi e collegamenti esterni – con ciò che Google ritiene il miglior risultato per la ricerca “best photo film”. La pagina di Digital Camera World 17 è un articolo costruito intorno ai link di affiliazione ad Amazon e ai pezzi di codice a cui Google dà valore, niente più: non fornisce alcuna informazione utile, non mostra esempi per ogni rullino, e condisce il tutto con sei file JavaScript inutili e oltre 16,000 righe di codice CSS.
Cos’è successo ai siti? Si parta dal verificare l’effettiva validità, veridicità e qualità del contenuto che si vuole mettere in linea prima di qualsiasi interferenza dettata da ragioni (o limitazioni) di layout, organizzandolo in una forma sensata con una gerarchia logica tramite un codice pulito, nel rispetto degli standard WCAG. Chiaro, alla fine si ottiene una banale pagina HTML che potrebbe fare chiunque: però serve a qualcuno.
Progettare siti al contrario. Si potrebbe anzi smettere del tutto di progettarli, astenersi, ma in contesti dove il radicalismo non attecchisce pensare di non avere un popup per i cookie o un’icona per la condivisione su Facebook è scandalo, più che fantascienza.
In qualche modo, anche l’applicare a prescindere lo stesso identico pattern – grande foto di stock comprata a pochi centesimi, testo centrato che entra in trasparenza, logo a bassa risoluzione in alto a sinistra, menu a tre linee in alto a destra, servizi elencati su tre colonne ognuno con un’icona da fontawesome, 18 pagina “About” e pagina “Contatti” – si può considerare una forma di astensione dalla progettazione. Sicuramente una virata verso l’omogeneizzazione dei layout perpetrata dall’uso continuo di template produce quella fiducia nel visitatore necessaria per convincerlo a reputare veritiere le notizie/informazioni riportate o anche per favorire l’acquisto di merce online ovunque si trovi sul web, ma a spese della possibilità di dare effettivamente valore al contenuto.
Un sito come quello di Ken Rockwell, invece, si guadagna la fiducia del lettore con ciò che scrive, non tramite il suo aspetto. E paradossalmente oggi, vista la rarità di siti così densi di contenuto, quell’estetica (almeno finché non abusata) si è trasformata in una garanzia di essere davanti a una pagina scritta con passione e competenza.
Si torni perciò nella forma e nel contenuto a un’Internet più semplice, più aperta e più varia. L’aspetto visivo sarà secondario: la possibilità che due blog condividano lo stesso layout con Times New Roman nero e link blu come si usava a fine anni ’90 è irrilevante, purché entrambi offrano un servizio valido e interessante. Ci sono migliaia di siti web impostati con una tipografia simile, così come ci sono migliaia di persone che si somigliano – ma alcune sono vuote, altre hanno idee.
Per coloro che non riescono ad allontanarsi dai pattern che oggi ispirano più “fiducia nel consumatore”, si considerino queste soluzioni:
- Nessuno sopporta i popup e ci sono decine di alternative per tutti gli scenari. 19
- È possibile realizzare siti perfettamente funzionali senza l’uso di cookie.
- La pubblicità è senza dubbio un modo diretto per monetizzare le pagine Internet, ma siti come Fontsinuse risolvono egregiamente la questione proponendo pubblicità integrate nel layout e interessanti per i visitatori.
- L’esistenza di una barra di navigazione a inizio pagina è un pattern così assodato che non serve ricordare costantemente all’utente la sua esistenza tramite un header fisso: quando e se ne avrà bisogno potrà scorrere indietro per ritrovarla.
- È possibile ordinare i contenuti più importanti di un sito anche senza l’uso di caroselli animati, semplicemente decidendo cosa va prima e cosa dopo.
- Google Analytics non è l’unico strumento per tenere traccia del traffico di utenti e, anzi, esistono soluzioni interamente autosufficienti. 20
- Mantenere l’iscrizione alla newsletter come scelta opzionale volontaria permette di non screditare l’intero strumento di comunicazione solo per ottenere iscritti comunque non interessati.
- Evitare di alimentare la centralizzazione di Internet verso i social network tramite suggerimenti di condivisione o richiesta di like: favorire l’uso di social network non aumenta ma diminuisce il traffico verso siti web indipendenti.
Questo sito è quello che deve dire. Non ha cookie di tracciamento, non ha popup, è accessibile e non ha immagini stock da 3MB l’una. Chi l’ha progettato è innanzitutto un visitatore di altri siti web, e questa è l’accoglienza che vorrebbe trovare ovunque.
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1
W3C: World Wide Web Consortium. (w3c.org)
↩︎ -
2
WCAG: Web Content Accessibility Guidelines. (w3c.org)
↩︎ -
3
Jonathan Lazar, Patricia Beere, Kisha-Dawn Greenidge, Yogesh Nagappa: “Web accessibility in the Mid-Atlantic United States: A study of 50 homepages”. Universal Access in the Information Society, novembre 2003. (researchgate.net)
↩︎ -
4
Jonathan Lazar, Kisha-Dawn Greenidge: “One year older, but not necessarily wiser: An evaluation of homepage accessibility problems over time”. Universal Access in the Information Society, maggio 2006. (researchgate.net)
↩︎ -
5
Marie-Luise Leitner, Christine Strauss, Christian Stummer: “Web accessibility implementation in private sector organizations: Motivations and business impact”. Universal Access in the Information Society, giugno 2016. (researchgate.net)
↩︎ -
6
Brad Forst: “Death to Bullshit”. (deathtobullshit.com)
↩︎ -
7
Hanson O'Haver: “The web looks like Shit”. The Outline, aprile 2017. (theoutline.com)
↩︎ -
8
Kevin McSpadden: “You Now Have a Shorter Attention Span Than a Goldfish”. Time, maggio 2015. (time.com)
↩︎ -
9
Studio — Dinamo Typefaces. (abcdinamo.com)
↩︎ -
10
Una recente puntata di “Last Week Tonight” con John Oliver esplora la questione. (youtube.com)
↩︎ -
11
“30 Experimental WebGL Websites”, marzo 2022. (awwwards.com)
↩︎ -
12
Chris Coyier: “Browser Engine Diversity”. CSS-Tricks, settembre 2019. (css-tricks.com)
↩︎ -
13
@SwiftOnSecurity: “Every week Google search becomes worse and worse and we’re so used to it nobody even talks about it anymore”. Twitter, aprile 2020. (twitter.com)
↩︎ -
14
Oliver Reichenstein, “Take the Power Back”. iA Blog, febbraio 2018. (ia.net)
↩︎ -
15
Ken Rockwell, “How to shoot film”. (kenrockwell.com)
↩︎ -
16
Ibid.
↩︎ -
17
Rod Lawton, Louise Carey: “Best film: our picks of the best 35mm film, roll film, and sheet film for your camera”. Digital Camera World, ottobre 2020. (digitalcameraworld.com)
↩︎ -
18
Font Awesome. “The web's most popular icon set and toolkit”. (fontawesome.com)
↩︎ -
19
Anna Kaley: “Popups: 10 Problematic Trends and Alternatives”. NielsenNormanGroup, giugno 2019. (nngroup.com)
↩︎ -
20
Shynet. “Modern, privacy-friendly, and cookie-free web analytics”. (github.com)
↩︎